L’orizzonte dei teatri di comunità
di Roberta Gandolfi*
articolo estratto dalla rivista "Dalla parte del torto"
rivista trimestrale di politica,cultura e società, edito dall'associazione "dalla parte del torto"
Parma primavera 2022 annoXXV, numero 96
Invitata da AnelloDebole a Felino, al
Festival dell’Alambicco, dove si è
sostanziato un anno di lavoro creativo
e narrativo con le persone e le associazioni
del territorio, ho scrutato l’orizzonte dei
teatri di comunità. Cosa ho visto, come
studiosa e storica del teatro? Di che cieli
stiamo parlando, di quali latitudini, di
quali orizzonti?
Vedo una componente antica, primigenia
dell’arte teatrale: il coro. La figura del
coro è sparita da centinaia di anni dai
palcoscenici dei teatri, ma è sempre al
cuore e ben visibile nei teatri di comunità.
Nei testi dei grandi tragici greci, il numero
maggiore di battute non era destinato ai
personaggi ma alla figura collettiva del
coro, che occupava lo spazio circolare
dell’orchestra, di raccordo fra la skenè e
la cavea. Il coro era ritmo pulsante sulla
scena con le sue azioni ritmate e danzate,
mentre la parola era affidata al corifeo,
e aveva funzione di interrogazione e
connessione fra il mito e i cittadini, fra le
gesta in conflitto degli eroi, le loro ragioni,
la voce degli dei, il sentire comune.
La figura del coro, oggi come nell’antica
Grecia, è figura di amatori e amatrici del
teatro. I protagonisti degli odierni teatri
di comunità sono coralità di cittadini
e cittadine, partecipi e co-autori di
momenti espressivi collettivi. E i teatri
di comunità possono essere pratiche
di resilienza contro la frammentazione
e l’atomizzazione sociale. Quando la
coralità si fa principio di pratica e di
creazione artistica, il teatro potenzia
ed esalta la sua funzione riflessiva e
riflettente dei nodi e dei temi delle nostre
vulnerabili comunità…
All’orizzonte dei teatri di comunità vedo
un’altra caratteristica antica. Per molto
tempo e in tante civiltà a promuovere
le azioni teatrali e festive sono state
associazioni e comunità di cittadini,
impegnate in un tempo antiutilitaristico.
Pensiamo ai tempi dei Comuni medievali,
quando la vita festiva e le culture
rappresentative della città erano a
carico delle confraternite laiche e delle
associazioni di arti e mestieri: erano loro
a mettere in scena, per luoghi deputati, e
in forma itinerante nello spazio urbano,
i Misteri e le Sacre rappresentazioni che
sostanziavano il calendario liturgico. Qui
a Felino vedo affiorare questo dato della
vita associativa come volano del teatro
di comunità: i Giorni dell’alambicco
mettono al centro tanti ‘attori sociali’
e dedicano uno spazio privilegiato
all’associazionismo. Associazionismo
e volontariato sono forze motrici della
nostra società, attivano una circolazione
di beni di tipo diverso dai beni materiali
e di consumo, quelli che si acquistano
con il denaro. Il far festa, la creatività
performativa, l’aggregarsi in movimento
corale secondo ritualità specifiche, antiche
o nuove, sono piuttosto beni culturali
immateriali, tali oggi sono considerati
nel vocabolario dell’UNESCO.
Questo legame con l’associazionismo
ci dice anche altro. Ci dice che i
teatri di comunità vivono un tempo
altro, antiutilitaristico: la logica delle
associazioni e del volontariato è quella del
baratto e del dono, e il dono del proprio
tempo e del proprio impegno diventa
promotore di relazioni e di legame sociale.
E’un discorso lungo e molto interessante
che si può approfondire leggendo alcuni
saggi (Alain Caillè, Il terzo paradigma.
Antropologia filosofica del dono), e che
riguarda da vicino il teatro (Alberto
Pagliarino, Teatro, comunità e capitale
sociale) come abbiamo scoperto insieme a
Laura Casali di AnelloDebole, grazie alla
sua tesi di laurea discussa presso l’Ateneo
di Parma qualche mese fa.
Quali sono oggi i nostri tempi?
C’è il tempo della quotidianità
lavorativa e familiare, c’è oggi
poi nelle nostre vite un tempo parallelo
che è il tempo dei social, il tempo infinito
che passiamo nello spazio virtuale,
che da un lato ci connette a mille cose,
dall’altro ci isola gli uni dagli altri. I teatri
di comunità, come il teatro tout-court,
arte collettiva per eccellenza, vivono e
attivano invece un tempo di presenza,
dove siamo in gioco e connessi gli uni
agli altri con i nostri corpi, i nostri occhi,
la nostra sensibilità e la nostra emozione.
È il tempo del gioco, dell’effervescenza,
dell’energia, dell’espressione, della
memoria collettiva, del condividere…
Vedo che i teatri di comunità affondano
le loro radici, spesso e volentieri, nella
cultura popolare.
Non distante da Felino, fiorisce tutt’ora
una forma antica di teatro di comunità,
quella dei Maggi dell’appennino toscoemiliano,
nella quale ritroviamo il
protagonismo di associazioni non
professioniste, lo spirito ludico della
competizione, la cultura orale del verso
ritmato, del poetare. Le radici nel folklore
e nella cultura popolare sono evidenti,
ma anche quando i teatri di comunità
sono invenzioni del contemporaneo,
ogni nuovo progetto si confronta,
indirettamente o direttamente, con la
domanda del popolare e sente la necessità
di declinarla all’altezza dell’oggi.
La domanda intorno alla ‘cultura popolare’
in Italia ridivenne cogente e critica oltre
mezzo secolo fa, quando andavamo
velocemente industrializzandoci e le
campagne si spopolavano: si pensi alla
complessa interrogazione della cultura
popolare portata avanti dalla scuola di
De Martino (per i fenomeni performativi,
come non ricordare lo studio di Annabella
Rossi, Le feste dei poveri) e l’insieme
delle riflessioni di Pasolini sul mutamento
antropologico della nostra nazione.
Intanto un paese come Monticchiello, in
Toscana, volle inventare una forma nuova
e laica di teatro di comunità e la chiamò
Teatro Povero, non so se in omaggio a
Jerzy Grotowski, il teatrante polacco che
attraverso il lavoro con l’attore cercava
sperimentalmente e empiricamente le
radici dell’umano, o per dichiarare le
proprie radici nella cultura popolare e
contadina. L’esperienza è fiorita, si è
consolidata nella forma di autodrammi
nati da processi drammaturgici partecipati,che vengono inscenati annualmente
accompagnando le trasformazioni
della comunità: ogni estate, fra luglio
e agosto, l’esperienza di condividere
lo spettacolo nella piccola piazza di
Montichiello, insieme ai suoi abitanti,
è intensa e significativa. Monticchiello
ha trovato la sua chiave per raccontare
le metamorfosi del mondo contadino di
fronte alla contemporaneità, sfruttando i
linguaggi del teatro di ricerca.
Più o meno negli stessi anni anche
Giuliano Scabia, che da poco ci ha
lasciato, e che col suo Teatro Vagante
è stato un grande maestro e precursore
di nuove forme di teatro di comunità, si
interrogava insieme ai suoi studenti del
DAMS di Bologna sulla cultura popolare
dei nostri Appennini: incontrarono i
canovacci del teatro di stalla e ispirandosi
al mitico collettivo del Bread and Puppet,
che dagli Stati Uniti portava allora in
Italia le sue parate di strada pacifiste,
li riattivarono con i viaggi del Gorilla
quadrumano, un grande pupazzo che
come moderni cantastorie muovevano
in coro di paese in paese…
In un mondo profondamente mutato
cos’è, quale è, dove è la performatività
‘popolare’ oggi? Gli anni del covid
hanno depresso ogni pratica aggregativa
performativa, ma le culture giovanili del
rap e delle street dances e delle nuove
feste vibrano sotto le ceneri, ed è compito
arduo intercettare e attivare vecchie e
nuove culture espressive… Ogni teatro
di comunità che oggi nasce, in forma
di progetto, non può che portare con sé
queste domande e queste sfide.
Vedo che i teatri di comunità, oggi come
ieri, hanno spesso una interessante
capacità aggregativa e sono votati a fare
luogo e farsi luogo.
Il pubblico dei teatri di comunità non
è il pubblico pagante del rito borghese
della serata a teatro. É il pubblico di
amici, conoscenti, parenti e riaggrega
una comunità che non è solo ‘provvisoria’
ma coincide spesso con il territorio di
appartenenza. Rubando l’espressione al
drammaturgo e regista Marco Martinelli,
autore di un recente pamphlet intitolato
Farsi luogo. Varco al teatro in 101
movimenti, possiamo dire che il teatro
così fa luogo e si fa luogo: fa luogo perché
riaggrega ritualmente la comunità, e
anche in senso concreto e spaziale, oggi
come ieri, perché si svolge in uno spazio
della comunità e lo rende vivo e diverso,
investendolo di un immaginario altro,
extra quotidiano. Così è successo in questi
Giorni dell’Alambicco, ad esempio,
alla Corte di S. Ilario Baganza, dove
si è preparato lo spettacolo partecipato
de Gli uccelli, da Aristofane a Attar,
coinvolgendo fienile e trattori, porte
e portici, gli affacci e le finestre delle
case e i loro residenti, il campanile della
piccola chiesa e il suo parroco, diventati
tutti luogo e corpo metamorfico, che ci
ha riempito di energia e visione.
In passato ho condiviso con Zeroteatro e
con Giorgio Degasperi progetti di teatri di
comunità capaci di trasformare in luogo i
non luoghi delle nostre periferie urbane:
cortili delle case di quartiere di Borgo
Panigale, nella periferia di Bologna, e il
suo lungo Reno abitato da insediamenti
abusivi di ROM… I teatri di comunità,
in tutte queste esperienze, sono votati
all’aperto, agli spazi collettivi, alla loro
risemantizzazione, alle loro possibili
metamorfosi.
Concludendo
Riguardando questi orizzonti: la
coralità, l’associazionismo, le culture
popolari, il farsi luogo, il tempo del
dono, non pare strano che oggi si
valorizzino i teatri di comunità. Paiono
oggi necessari come antidoto a quella
che è stata chiamata la società della
stanchezza, allo sfilacciarsi dei legami
sociali che caratterizza le nostre società
occidentali. E sono spesso orizzonte
necessario per gli artisti del teatro più
sensibili all’anima del mondo, più votati
a percepire e praticare il teatro come arte
di relazione. AnelloDebole è qui con noi
ed è una nostra ricchezza.
*Professoressa associata dal 2019 presso
l’Università di Parma, dipartimento
DUSIC.